La Messa da Requiem non è soltanto la prima grande opera sacra di Giuseppe Verdi, escludendo i brevi pezzi composti durante gli studi giovanili a Busseto.
Il Requiem è molto di più: è un testamento spirituale, di Verdi e anche di un epoca; è uno di quei capolavori, come ce ne sono altri nell’intera storia della musica, che svolgono ruolo sia di sintesi di una perfezione raggiunta, sia di trampolino di lancio per nuove ere, dove i valori in campo cambiano radicalmente spingendo il futuro oltre l’immaginabile.
Ed è singolare il fatto che tutto questo non sia affidato da Verdi ad una opera lirica ma ad una messa, un brano corale-strumentale.
Come a voler affermare, ancora una volta, che l’opera lirica italiana, nella quale Verdi si era innestato, non poteva ancora maturare complete rivoluzioni all’interno di se stessa, autonomamente, e senza l’aiuto di una qualche altra forma, più libera, meno costretta dalle tradizioni, dal costume, dalle convenzioni.
Il Requiem è specchio dell’umanità di Verdi.
In un certo senso se non lo avesse scritto e se non avesse comportato una generazione elaborata e particolare come quella che poi ha avuto, verrebbe da dire che Verdi fosse ateo, freddo e calcolatore, un poco opportunista e generoso soltanto per ciò che gli costava una fatica relativa.
Definire Verdi "generoso" solo perché fra le ultime azioni della sua vita ha destinato una parte del suo cospicuo patrimonio per far costruire la famosa Casa di riposo a lui intestata e il piccolo ospedale di Villanova, a due passi da Sant’Agata, sarebbe fuorviante.
In realtà gli ultimi decenni della vita di Verdi sono intrisi di una umanità nuova, diversa da quella che una vita scandita dal lavoro e dalle ambizioni aveva lasciato trapelare.
L’idea per una Messa da Requiem nasce da una circostanza particolare: la celebrazione in musica per la morte di un grande compositore: Gioacchino Rossini.
Verdi inizialmente propose di affidare la composizione di questa messa oltre che a se stesso anche ad alcuni altri compositori italiani in vista.
Progetto che non andò in porto, forse per gelosie, forse per timore di confrontarsi l’un l’altro e tutti insieme con l’ormai famoso Giuseppe Verdi.
Tuttavia è un segno preciso il desiderare, da parte di Verdi, una certa comunione con i colleghi, comunione che il suo grande successo aveva presumibilmente lasciato il campo a devastanti (per gli altri) gelosie ed invidie.
Il progetto del Requiem pro Rossini viene accantonato.
Poi avvenne un’altra scomparsa, emotivamente più vicina a Verdi: la morte di Alessandro Manzoni.
E allora quel Requiem, che ormai probabilmente aveva trovato uno spazio preciso e stabile nella sua mente, trova realizzazione sulla carta e diventa la grande messa funebre che conosciamo.
Una messa funebre italiana, latina, diversa dai grandi requiem nordici europei, prevalentemente luterani, diversa dal Requiem di Brahms e parzialmente anche da quello di Mozart, benché quest’ultimo sia maturato in ambiente cattolico.
Ma è la latinità, non tanto il credo che determina la differenza: volendo ragionare per estremi, per definizioni, potremmo dire che i requiem nordici sono evocati alla mente del compositore dall’aldilà, dal mondo più o meno spirituale dei defunti, dal regno dei cieli visto da chi ci è trapassato in quel regno. L’orazione pervade queste messe funebri, l’elegia rassegnata o celestiale, l’ipotesi di una effettiva miglior vita.
Nei requiem latini, e soprattutto nella Messa da Requiem verdiana, cambia radicalmente la prospettiva, il punto di vista.
La morte viene descritta dai vivi, da chi rimane, da chi resta, sgomento, da chi è spaventato per la rudezza del destino, da chi ha paura della morte.
E l’immediata conseguenza di tutto ciò è la preghiera, l’implorazione affinché quella fine così ineluttabile sia meno dura, meno vicina, meno devastante.
Questa è l’essenza del Requiem verdiano, opera di un uomo laico al limite dell’ateismo per chi lo avesse giudicato dalle apparenze, di solito molto care ad una certa cultura bigotta, ma traboccante di spiritualità per chi ne avesse studiato l’opera che, per un artista, è la forma di comunicazione più vera e più autentica.
Dal punto di vista musicale c’è chi vede nel Requiem una prosecuzione del Don Carlo ed in particolare di quel grande monologo di Filippo II “Ella giammai m’amo’” di cui abbiamo già detto.
La riflessione del Re di Spagna, velata da un certo pessimismo e che a tratti sembra quasi una cessione alla ineluttabilità dei destini umani, si ripresenta universalizzata nello stordimento, spaventato e disarmato, che domina la Messa da Requiem.
Anche le sonorità sono simili, senz’altro più vicine che alla posteriore Aida. Ma, l’abbiamo già detto, Aida è una “summa” di un percorso, non la tappa più estrema. Don Carlo è il più azzardato esperimento verdiano prima del Requiem. Aida è il più perfetto.
Il Requiem è anche il punto di avvio di un gioco che Verdi esplorerà negli ultimi anni di vita. Il gioco della provocazione, della emancipazione rispetto ad una moda che stava ormai invadendo l’Italia e l’intera Europa: la moda della modernità.