E’ stupefacente constatare quanti elementi vadano a comporre il piccolo ma grande mondo nel quale Verdi visse e lavorò: fatto di persone, di abitudini, di combinazioni.
Del resto lo studio musicologico si è consumato sulla ricerca di tutto ciò che riguardi la sua vita pubblica e privata.
Nonostante Verdi sia stato sempre assai riservato, in verità noi tutti siamo stati fortunati. La provvidenziale presenza dell’allievo Emanuele Muzio, fedele angelo custode per almeno sei anni, ci offre all’insaputa del maestro una traccia dettagliata di tutti i suoi movimenti, delle riflessioni, degli stati d’animo.
Muzio aveva infatti il dovere di tenere informata la famiglia quasi giornalmente e, involontariamente, informava anche sulla vita di Verdi. A lui dobbiamo la dovizia di particolari fino al 1848.
Ma quando nella vita del Maestro entra a titolo di compagna Giuseppina Strepponi, Muzio scompare dalla scena e le notizie su Verdi si diradano. Rimangono le lettere e le vicende pubbliche del Verdi compositore o deputato.
Sul Verdi deputato dobbiamo fare un bel discorso che fra l’altro ci introduce alla sua quartultima opera e cioè a Don Carlo.
Prima però ricordo che fra Un Ballo in Maschera e Don Carlo, Verdi scrisse La Forza del destino. Opera importante ma sulla via che porta alla vera, grande e definitiva perfezione di Verdi: quella costituita dalle sue ultime quattro creazioni e cioè Don Carlo, Aida, Otello e Falstaff, sulle quali ci soffermeremo più diffusamente.
Tornando al Verdi deputato è eloquente, più delle mie parole, una lettera tratta dall’epistolario verdiano ed indirizzata a Francesco Maria Piave.
A Francesco Maria Piave
4 febbraio 1865
Tu mi domandi notizie e documenti sulla mia vita pubblica? La mia vita pubblica non esiste. Son deputato è vero, ma fu per sbaglio. Ti dirò nonostante la storia della mia Deputatura. Nel settembre del 1860 ero a Torino. Non aveva mai visto il Conte di Cavour ed era anziosissimo di conoscerlo. Pregai il ministro inglese d’allora perché mi presentasse. Il Conte vivea, dopo il trattato di Villafranca, lontano dagli affari pubblici in una sua campagna, credo, sul Vercellese, ed un bel mattino ci recammo da Lui. Dopo quell’epoca, io ebbi occasione di scrivergli e di ricevere da Lui qualche lettera, in una delle quali mi esortava ad accettare la candidatura a deputato che i miei concittadini mi offrivano e ch’io rifiutava. La lettera era amabilissima, e non sapeva come rispondere a quella lettera con un no. Mi decisi andare a Torino; mi presentai a Lui in una giornata di dicembre a 6 ore del mattino, con 12 o 14 gradi di freddo. Aveva preparato il mio spice che mi pareva un capo d’opera, e glielo spiattellai là tutto disteso. Egli m’ascoltava attentamente e quando gli descrissi la mia inattitudine ad essere deputato, e i miei impeti d’impazienza a lunghi discorsi che bisogna talvolta inghiottire alla Camera, lo feci in un modo cosi bizzarro ch’egli diede in un gran scoppio di risa. Bene, dissi fra me, son riuscito. Allora egli cominciò a ribattere una per una tutte le mie ragioni, e ne aggiunse alcune che mi fecero un certo senso. Io soggiunsi “ Ebbene Signor Conte, accetto; ma alla condizione che dopo qualche mese io darò la mia dimissione”. “Sia”, rispose, “ma me ne farete prima cenno”. Fui deputato, e nei primi tempi frequentai la Camera. Venne la seduta solenne in cui si proclamò Roma, capitale d’Italia. Dato il mio voto, mi avvicinai al Conte e gli dissi: ora mi pare tempo di dare un addio a questi banchi. No, soggiunse, aspettate finché andremo a Roma. “Ci andremo?” “Si.” “Quando?” “Oh quando, quando!” “Intanto me ne vado in campagna.” “Addio, state bene, addio.” Fur l’ultime sue parole per me. Poche settimane dopo moriva!... Dopo qualche mese io partii per la Russia, poi venni a Londra, indi da Parigi ritornai in Russia, venni a Madrid, feci un viaggio in Andalusia e tornai a Parigi ove mi fermai parecchi mesi per affari di professione. Stetti lontano dalla Camera per due anni e più, dopo vi sono andato rarissime volte. Più volte volli dare le mie dimissioni, ma ora perché non era bene promuovere nuove elezioni, ora per una cosa, ora per l’altra io sono ancora deputato contro ogni mio desiderio ed ogni mio gusto, senza avervi nessuna attitudine, nessun talento e mancante completamente di quella pazienza tanto necessaria in quel recinto. Ecco tutto. Ripeto che volendo o dovendo fare la mia biografia come membro del Parlamento non vi sarebbe altro che imprimere in mezzo di un bel foglio di carta: “I 450 non sono veramente che 449, perché Verdi come deputato non esiste”
Lo stato. L’arte e la ragion di Stato. L’amore e la ragion di Stato.
Il Don Carlo, opera scritta per l’Opéra di Parigi - e da questa circostanza ne deriva la lunghezza inusuale per Verdi - ha come pilastro il grande pasticcio che si è sempre insinuato fra l’amore, l’amore paterno, l’amore religioso detto fede e la ragion di Stato.
Miscuglio infiammabile: essere padre, essere Re e avere un inquisitore, voce della Santa Romana Chiesa, che domina imperscrutabile sugli affari di cuore e di Stato.
Sono presenti molti dei dissidi che popolano anche la mente di Verdi.
A suo modo Verdi ha vissuto, in piccola parte si intende, una situazione dove le diverse ragioni, di Stato, di Chiesa e d’amore risultavano sovrapposte creando qualche difficoltà.
Innamorato di Giuseppina Strepponi, già sposata ma separata consensualmente, dovette lottare contro la morale bacchettona dei bussetani, del padre e della madre e perfino del Barezzi che comunque fu uno dei più tolleranti (anche perchè lui stesso si risposò!).
La faccenda non si limitava alle occhiate traverse dei paesani di Busseto. Prova ne sia il fatto che più volte Verdi si sia spostato per l’Europa da solo, lasciando la Peppina, come la chiamava lui, a casa perché era più conveniente così.
Opportunità di Stato o di etichetta contro le ragioni del cuore.