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Un bivio

Il percorso di Giuseppe Verdi giunge, a questo punto, ad un bivio.

Verdi ha raggiunto l’agognato successo, è ricco, può imporre in maniera piuttosto libera le proprie condizioni sia agli editori, che poi si riducevano ad uno solo giacché lavorava solo con i Ricordi, prima Giovanni e poi Tito, ma anche ai librettisti, agli impresari e pure ai cantanti.
Si è ormai guadagnato quella posizione di dominio alla quale aspirava sin dagli inizi della sua carriera. Ora ci si aspetterebbe da lui che cominci per davvero a scardinare il sistema operistico italiano, colmando quel divario che lo separava dall’opera lirica dilagante al di là delle alpi, in pieno fermento progressista.

E fu ciò che Verdi fece: la scelta premiò la coerenza. Tuttavia, con la stessa sincerità adottata descrivendo la sua predilezione per gli affari economici, bisogna osservare che avrebbe anche potuto percorrere un’altra strada, più liscia, più redditizia.
La strada dell’autoconformismo da lui stesso tracciata con la trilogia popolare.

In pratica avrebbe potuto tranquillamente mettersi a scrivere tanti cloni di Rigoletto, di Il Trovatore, di La Traviata facendo così un mucchio di quattrini con poco sforzo.
Verdi invece mantenne le promesse fatte. Dopo La Traviata cominciò a comportarsi come un artista che misura i propri passi con l’ambizione di fare arte vera, arte unica. Il giudizio del pubblico cominciò ad essergli più indifferente e ugualmente quello degli impresari o dei critici.

Proprio in questo senso acquisiscono un ruolo le due opere che seguono La Traviata, opere non felicissime, non belle come le precedenti, e dicendo non belle non si intende inferiori.
Tutt’altro! Probabilmente sono per molti aspetti superiori. Basta decidersi su quale deve essere il punto di osservazione.

Per meglio comprendere il ragionamento è necessario introdurre un elemento inedito: Verdi ora ha nuovi obiettivi in testa.

La caratterizzazione e l’unione fra dramma e musica era in buona parte raggiunta. La musica nelle tre opere della trilogia è innegabilmente più uniforme al dramma. Finalmente i personaggi non si presentano come i soliti fantocci un poco vuoti dell’opera primo-ottocento, tutta bel canto ma di scarsa sostanza drammatica.

Tuttavia rimanevano da affrontare due aspetti, tutti e due di portata notevole.
Il primo riguardava il rapporto fra Verdi e il mondo artistico europeo. Verdi a questo punto mirava ad internazionalizzare la propria opera, a staccare il cordone che lo legava un po’ troppo all’Italia: già aveva iniziato scrivendo o riscrivendo alcuni melodrammi per l’Opéra di Parigi. Ora si trattava di compiere passi più decisi verso l’internazionalizzazione e per far questo era necessario studiare anche le tradizioni melodrammatiche straniere. Bisognava calarsi il più possibile nei diversi mondi artistici internazionali. Quello che risultò il più affine a Verdi fu il mondo operistico parigino, il “Grand Opéra du Paris”.

Il secondo aspetto è invece più legato alla tradizione drammaturgica italiana: vi era un fattore critico, molto radicato nella cultura operistica italica ma anacronistico rispetto al modo di pensare romantico: il fattore che definiremo semplicisticamente “bene contro male” o viceversa.

Nella cultura classica, e poi nella morale dell’opera italiana del primo ottocento, i personaggi si spartivano in maniera precisa i ruoli di benefattori o di malfattori.
Il bene e gli eroi stavano da una parte; il male stava dall’altra. Verdi ci si ritrovò stretto in questa prospettiva manichea e già l’aveva dimostrato in alcuni suoi lavori, in particolare nella trilogia popolare.
Ci si ritrovò stretto perché la realtà, quella che Verdi ora cercava di mettere in scena, non permetteva e non permette una così sicura identificazione del bene e del male.
Nella realtà il bene e il male si sovrappongono, si amalgamano sfuggendo ad ogni identificazione precisa.

Si consideri, a titolo di esempio, l’opera Rigoletto. Dopo una attenta analisi ci si ponga le seguenti domande.
Chi è il cattivo nel Rigoletto?
Il Duca di Mantova? Be’ al massimo è uno scaltro donnaiolo ma di certo non è il responsabile di ciò che accade a Rigoletto e a sua figlia!

Allora è Monterone il cattivo, che va a difendere l’onore di sua figlia, viene deriso da Rigoletto e, con tutta la forza della disperazione, maledice Rigoletto stesso? Decisamente no!
Allora è Rigoletto il cattivo, un uomo solo, disperato, tristissimo, costretto a fare il buffone per mantenere se stesso e l’amata figlia? E’ troppo pietoso per essere un cattivo.
Allora sono i cortigiani che si devono beccare tutte le pernacchie di Rigoletto senza aprir bocca? Neppure!
Sparafucile, che sicuramente fa parte dei cattivi, è fuori dai giochi giacché ricopre un ruolo marginale rispetto la vicenda: è un comprimario.

Come si può notare si potrebbe rimanere ore ed ore a dibattere su questa faccenda. E Verdi se ne compiacerebbe giacché lui stesso ha intenzionalmente inoculato il dilemma all’interno del dramma.

Tuttavia qualcuno potrebbe obiettare a quest’ultima osservazione dicendo: “benché il Rigoletto sia stato messo in musica da Giuseppe Verdi, in realtà il dramma è di Victor Hugo , un francese che con l’opera italiana aveva ben poco a che fare”.
L’osservazione “cadrebbe a fagiolo” perché punterebbe il dito al nocciolo del problema.

In effetti in Europa la visione manichea della vita, più conforme allo spirito illuminista, stava già lasciando spazio ad una morale dove il bene e il male si fondevano, diventando in pratica indistinguibili.
Verdi, che viveva ormai indifferentemente tra la Francia e l’Italia, trovò questa tendenza stimolante per cui si mise alla ricerca di drammi nuovi, in linea con questa più realistica morale.
Tuttavia dovette modificare progressivamente anche la struttura musicale affinché il superamento della spezzettatura in piccole scene chiuse, ognuna con un proprio carattere, permettesse una migliore rappresentazione di questa visione psicologica più elaborata, meno adatta ad essere descritta in maniera frammentaria.
Una sequenza musicale più ampia, senza soluzione di continuità avrebbe consentito all’opera italiana di allinearsi a ciò che Wagner stava già facendo in Germania.

I Vespri Siciliani, la prima opera dopo La Traviata, poi Simon Boccanegra e Un Ballo in Maschera sono tavole da lavoro dove Verdi sperimentò, inventò, giocò a scardinare e a ricomporre il suo linguaggio.

Prendiamo ad esempio l’opera Un Ballo in Maschera. Fu di grande successo nonostante una vicenda dove il bene e il male sono difficilmente distinguibili.

Gremus

Gremus
La passione per la Grande Musica,
online dal 2007.