Don Carlo. Si chiamava così il prete dell'oratorio di quando avevo quattordicianni. Un bell'uomo, alto, simpatico e furbo. "S'era un bon veneto ciò, di quei che ghe piasevano i santi ma pure le sante", tanto che dovette andarsene per qualche storiella che cominciava a sfruculiare tra le panche della parrocchia. Invece il "Don Carlos" spagnolo, infante di Spagna, figlio di Filippo II re di Spagna e della prima delle quattro mogli di quest'ultimo – Maria Emanuela d'Aviz – non era un prete, non era simpatico, anzi, probabilmente era anche un po' sbalestrato.
Si dice che da piccolo gli piacesse, per divertimento, aggredire e torturare le amichette; poi una volta, sempre da piccolo e sempre per divertimento, tentò di ribaltare fuori dalla finestra il suo prete confessore, che venne salvato in extremis dalla servitù. Il padre Filippo II lo trattò sempre con molta pazienza ed indulgenza, fino a che, dopo che il figlio cercò di organizzargli contro una specie di congiura (forse per gioco anche questa), decise di dargli una regolata e lo costrinse per un periodo nei suoi appartamenti. Don Carlos aveva 22 anni. L'anno dopo sarebbe morto e non si sa bene perché. Quadretto perfetto per costruirci sopra dicerie e leggende. Ma non solo. Lo spunto era ideale per raccontare la Storia, la vera storia di quello che fu uno dei momenti più contorti di tutta la storia mondiale. Una vicenda costituita da intrecci tra politica, religione, interessi economici e di potere, il tutto appestato dal fumo macabro delle graticole marchiate "santa inquisizione", dove vennero bruciate migliaia di vite umane. Di questa storia se ne occuparono per raccontarla in arte prima Vittorio Alfieri, poi Schiller ed infine Giuseppe Verdi.
Quando si leggono racconti di Storia vera bisogna sempre fare attenzione ad un aspetto: ogni racconto è frutto di come lo scrittore ha letto quella vicenda storica. Per cui c'entra il periodo in cui ha vissuto lo scrittore, la sua storia personale, le sue idee e la quantità di quei fastidiosissimi sassolini che lo stesso scrittore ha nelle scarpe, e che non vede l'ora di togliersi. Quando Verdi scopre le vicende della Spagna imperiale, e poi studia la rilettura che già ne aveva fatto Schiller nel 1787, viene attratto fondamentalmente da un paio di cose.
Primo, si rende conto che con un po' di ritocchi se ne poteva tirar fuori un melodramma davvero romantico, ma non all'italiana, cioè con il solito intreccio lui-lei-l'altro, ed al massimo l'altra. Ci si poteva cavare qualcosa di più: sarebbe bastato provare a raccontare qualcosa che andasse oltre i soliti fatti di cuore. C'era la Storia, quella vera, che poteva dare un corpo tutto nuovo alla vicenda, al clima o alla tinta, come diceva Verdi; perfino all'invenzione musicale.
Secondo, era l'occasione per battere le scarpe contro un muro e tirarci fuori qualche sassolino: soprattutto contro la ragione di stato e la "s-ragione" di chiesa, istituzione che nel periodo della Spagna imperiale si comportò in maniera a dir poco ambigua. L'inquisizione, anzi la Santa Inquisizione è ancora oggi all'esame di storici e della Chiesa stessa. Verdi aveva un'opinione negativa sul metodo "giudicante" della chiesa, di tutte le chiese ad onor del vero, e la collocazione storica del Don Carlo, situata tra le guerre di religione post-riforma era un'occasione ghiotta per dipingere in musica la sua critica alla chiesa-stato.
Don Carlos di Giuseppe Verdi è un piccolo ("grandissimo") resoconto storico dove la musica protagonista restituisce sensazioni ed emozioni che la pagina scritta non può offrire. Però un po' di storia del periodo della Spagna di Filippo II bisogna saperla, altrimenti succede, come spesso avviene, che si esca da teatro e si senta dire: "bella la musica, ma non ci ho capitonulla della vicenda!!"
Filippo II è stato uno dei più potenti uomini mai vissuti. Era al vertice di un impero che andava ben oltre i confini spagnoli ed europei. L'impero di Spagna nella seconda metà del '500 si estendeva alle Americhe, all'Africa e pure all'Oriente. Nonostante la "Invincibile armada" cioè l'esercito che regolava le questioni più complesse, un impero del genere non poteva sorreggersi in altro modo che contando su di un partner potentissimo: la Chiesa.
Un'altra strategia indispensabile per reggere responsabilità imperiali così vaste era intrattenere buone relazioni con chi rappresentava il potere, ed è per questo che un buon uso dei matrimoni fra i vari rami monarchici era pratica consueta. Tutte le monarchie erano più o meno imparentate, e così e sempre stato, e lo è tutt'ora.
Filippo II si sposò in terze nozze con Elisabetta di Valois, di casata francese (figlia di Enrico II di Francia e Caterina de' Medici), e la sposò come suggello alla pace di Cateau-Cambrèsis tra Francia e Spagna (c'è di mezzo pure l'Inghilterra ma vi risparmio i dettagli).
In effetti Elisabetta di Valois, nei precisissimi calcoli da agenzia matrimoniale monarchica, era stata in precedenza accoppiata per "procura" a Don Carlos, il figlio di Filippo II. All'epoca della procura i due avevano meno di dieci anni e con buona probabilità non seppero mai di questo accoppiamento. Questa è Storia vera, sia chiaro.
Schiller e poi Verdi infilano qui dentro il germe della storia di cuore che serviva al racconto artistico. Don Carlos ed Elisabetta nell'opera verddian figurano già innamorati pazzi quando arriva la pace fra Francia e Spagna che assegna Elisabetta a Filippo II.
Spostandoci perciò all'opera, sul triangolo Don Carlos – Elisabetta di Valois – Filippo II, a cui si aggiunge come da copione la principessa d'Eboli, sorvolerò nella massima parte perché è la solita solfa, a parte l'archetipo del rapporto padre-figlio, anche questo tipicamente verdiano. Oltretutto qui non volano nemmeno i coltelli o le schioppettate per cui basta seguirla pari pari come si sviluppa la vicenda nell'opera: è l'unica cosa che si capisce al volo!
Invece c'è una figura, anche questa inventata da Schiller e Verdi, che a me personalmente piace moltissimo. Secondo me è quasi la figura centrale dell'opera. Ed è un personaggio che Verdi utilizza per togliersi qualche altro sassolino dalle scarpe, legato al concetto di amicizia. Verdi non ebbe molti amici perché aveva per questo ideale un pensiero molto elevato. E lo dimostra costruendo la figura di Rodrigo che regala la sua amicizia più vera a Don Carlos il quale, evidentemente assai più immaturo del primo, finirà verso la fine col pensare quell'amicizia tradita per motivi di interesse. Rodrigo in tutta l'opera di Verdi è la persona più coerente, più vera, saggia e sincera.
Raccoglie la confidenza di Don Carlos sul suo segreto amore per la ormai matrigna Elisabetta e, giurandogli eterna amicizia, non solo tesse una tela a protezione dell'amico, ma lo consiglia su come ricavarsi uno spazio importante negli equilibri dello stato.
Nella storia di Verdi, così come è stato nella realtà, l'impero spagnolo aveva un grosso problema nei Paesi Bassi: un problema legato alla riforma protestante, all'affermarsi del calvinismo e a lotte per preservare un'indipendenza che quei paesi si erano faticosamente conquistati.
Dagli spagnoli il problema venne innanzi tutto gestito dall'inquisizione, che semplicemente metteva al rogo chiunque, anche solo sospettosamente, osteggiava la chiesa nella sua riconquista del potere. Se osserviamo la storia vera, qui dovrei raccontare un mucchio di cose, perché fu davvero una pagina sconvolgente e complessissima. Non c'era di mezzo solo una questione di fede, ma c'erano interessi di quattrini, controlli sui territori, equilibri europei ecc. ecc. Qui comparvero personaggi del calibro di Guglielmo d'Orange, o Don Giovanni d'Austria. Ma tutto ciò nell'opera verdiana non c'è.
Ci sono però le persecuzioni nelle Fiandre ad opera della Santa Inquisizione, appoggiate da Filippo II; e poi c'è Rodrigo, liberale e fiero oppositore alla politica dura ed impietosa adottata dalla chiesa.
Rodrigo consiglia l'amico Don Carlos a trasferirsi in quelle terre, per osservare da vicino cosa sta accadendo, e anche un po' per dimenticare Elisabetta. E poi consiglia pure il Re, Filippo II, dicendogli che una condotta di questo tipo, riferendosi alla politica di repressione nelle Fiandre, non avrebbe dato beneficio né agli interessi imperiali né a quelli di un monarca che vorrebbe essere giusto e amato.
Ma Don Carlos, l'ho già detto, è più fumo e profumi che sostanza, e quando va nelle Fiandre combina pasticci. Si lascia guidare da un istinto immaturo e la prima cosa che fa è sguainare la spada. Contro chi?
Prima contro il padre Filippo II e poi, metaforicamente, perfino contro l'amico Rodrigo che cercava invano di renderlo meno istintivo. In una delle classiche scene da fine d'atto, con popoli incavolati neri, spade sfoderate, urla e imprecazioni, quando Rodrigo chiede la spada a Don Carlos lui gli risponde: "Tu! Rodrigo!", come per dire, proprio tu, che dicevi di essere amico, invece passi dalla parte di mio padre!!
Rodrigo stava salvando l'amico dal rogo, ma Don Carlos, invasato com'era, non poteva accorgersene. Infatti pochi secondi dopo dal cielo si ode la voce celeste che accompagna l'accensione della graticola per un qualche centinaio di oppositori: "Volate verso il ciel, volate, pover alme, V'affrettate a goder la pace del Signore!"
Quando Verdi voleva fare satira non aveva scrupoli....
Don Carlos viene imprigionato e già gli è andata bene.
Ma all'inizio dell'ultimo atto ci sono le due scene più "toste" dell'opera. Filippo II è solo, e medita. E' convinto che Elisabetta non l'ami, e sbaglia; ancora una volta per prendere una seria decisione chiama l'Inquisitore e con lui intreccia un discorso da brividi. Un saggio fra i rapporti Stato-Chiesa; un quadretto di cinismo efferato dove alla fine non sai se buttare il Re o il vecchiaccio immondo travestito da sacralità sacrilega.
Filippo II chiede all'inquisitore l'autorizzazione celeste per arrostire il figlio. La ottiene ovviamente. Ma la concessione non è gratuita. L'inquisitore chiede la pelle di Rodrigo, perché ha capito che il gioco di quest'ultimo è contro la bella pratica conciliante degli autodafè tanto amata dalla Santa Inquisizione. Il Re si oppone, perché una cosa invece finalmente l'ha capita anche lui: Rodrigo è l'unico di cui ci si possa fidare in quel regno di avvoltoi.
Il Re, ingenuamente, dice che ha bisogno di un consigliere e che Rodrigo può essere prezioso. Ma l'inquisitore furrrrrbo risponde: ma che razza di Re sei se hai bisogno di consiglieri??
Filippo insiste un pochino ma arriva puntuale la sciabolata divina. Cito testualmente ciò che dice l'inquisitore:" Perché mi trovo qui? Che vuole il Re da me?". Che significa: vuoi arrostirti il figlio con la mia benedizione? E allora prepara due spiedi, uno per lui uno per Rodrigo. Punto.
E Verdi si toglie il sassolino più grosso facendo dire a Filippo II a fin di scena: "Dunque il trono piegar dovrà sempre all'altare".
Poi il Re si occupa di Elisabetta e l'accusa direttamente di averlo tradito. Lei si sente male. E vabbè, la solita storia, ma niente di tragico.
La tragedia avviene dopo, e ancora una volta è centrata sulla figura eroica di Rodrigo. Corre dall'amico Don Carlos e gli dice che è libero, può uscire di prigione. Rodrigo si è addossato tutte le colpe per ciò che è successo nelle Fiandre scagionando interamente Don Carlos. Sa che questo gli costerà affrontare il rogo, ma fa questo per amicizia promessa e mantenuta. A quei tempi l'amicizia era una cosa seria; e lo era anche per Verdi. E purtroppo Rodrigo non avrebbe dovuto neanche aspettare il rogo: un fanatico del Sant'Uffizio gli fionda nella schiena un colpo di archibugio e lo stende.
Arriva Filippo II, tutto trafelato, intenzionato a restituire l'arma al figlio visto che ha saputo che è stata tutta colpa di Rodrigo (scaricato il prezioso consigliere in tre minuti netti...); Don Carlo ha finalmente un barlume di lucidità e respinge il padre; il popolo irrompe perché vuole la liberazione di Don Carlos; arriva pure l'Inquisitore il quale ordina a tutti di inchinarsi davanti al Re. Manca solo la banda!!
Ultima scena: Elisabetta e Don Carlos si incontrano nei pressi della tomba di Carlo V, padre di Filippo II. Si parlano, si guardano, si amano con gli occhi. Di colpo arrivano ancora Filippo II ed il solito vecchiaccio dell'Inquisizione. Il vecchiaccio (non il padre) ordina l'arresto del figlio. Don Carlos indietreggia fino a toccare la tomba del nonno.
Appare il fantasma di Carlo V che trascina Don Carlos chissà dove.
Finisce l'opera.
Non chiedetemi cosa simboleggi quest'ultimo finale. Ho cambiato idea cento volte. Quella che a me piace di più è che ancora una volta dall'aldilà Rodrigo abbia esortato il nonno di Don Carlos a sottrarre l'amico dalle mani dei due avvoltoi. Quest'opera secondo me avrebbe dovuto chiamarsi Rodrigo, non Don Carlos, ma obiettivamente avrebbe "suonato" meno bene! Ma ognuno si faccia la propria idea.
Ho rivisto il Dvd dell'opera proprio ieri sera. Grandiosa, e anche assai commovente.
E mi è venuto in mente il Don Carlo di quando avevo quattordici anni. Lui si che avrebbe saputo cosa fare: occuparsi dei santi....ma anche delle sante: molto più vicino a Dio, quello vero!