Il musicista non piange: emozione, concentrazione e pratica professionale

Il musicista non piange

Riflessione sull’emozione e la concentrazione nel fare musica

Sono un ex musicista. E sì, lo ammetto: si può usare il termine ex, anche se in realtà il musicista rimane sempre nell’anima. La musica è sempre nella mia vita — anche solo ascoltandola, scrivendone o riflettendo su di essa. Non riesco a immaginare una mia giornata senza ascoltare musica, senza provare l’emozione che solo la musica sa dare.

Le emozioni che la musica suscita sono molte e diverse. Tempo fa mi è capitato che una cliente venisse nel mio studio, dove avevo messo in sottofondo della musica di Bach. Dopo un po’ mi disse: “Non puoi togliere questa musica? Mi mette ansia.” Pensare che per me quella musica era invece una fonte di benessere e concentrazione! Ma è del tutto normale: come scriveva Igor Stravinskij, c’è musica che parla all’anima, musica che stimola l’intelletto e musica che agisce sui nervi. In ogni caso, la musica dà sempre qualcosa.

C’è però un fatto. Come ex musicista, spesso mi sento dire da amici o colleghi: “Perché non suoni più? Ti rilasserebbe, ti aiuterebbe a entrare in contatto con la tua parte spirituale, con il trascendente.” Su questo argomento vorrei dire due parole.

Ascoltare musica, in fin dei conti, è forse il modo migliore per usufruire della sua potenza. È vero che la musica, alle origini, nasce anche per essere praticata: i primi canti corali erano preghiere, un modo per rivolgersi al Divino. L’emozione, allora, era quella di connettersi con il Divino. Oggi però non siamo più in quella dimensione. Nessuno di noi, a meno che non canti in chiesa, pensa di rivolgersi a Dio attraverso la musica.

Dall’altra parte, però, esiste questa idea che il musicista, suonando – poniamo, il violino – possa entrare in contatto con la propria sfera spirituale, vivere un momento di pura emozione, quasi di meditazione. Ebbene, cari amici, non è così. Qualunque musicista vi dirà che, mentre suona, la mente è impegnatissima a gestire lo strumento, che non è mai semplice. Si deve essere totalmente concentrati: controllare l’archetto, la mano sinistra, la posizione, ricordare la musica e interpretarla al meglio.

Può sembrare strano, ma suonare a livello professionale non significa entrare in un’altra dimensione. Certo, la concentrazione che si raggiunge durante un’esecuzione è assoluta: a volte non si percepisce nemmeno se il pubblico tossisce o se accade qualcosa intorno. Ma quella è concentrazione tecnica, non meditazione. Tutta la mente è dedicata al controllo dello strumento, non al distacco dal pensiero.

Questo è un punto spesso frainteso: si pensa che suonare equivalga a lasciarsi trasportare dalle note, a estraniarsi dai problemi della vita. Non è così.

Ricordo un episodio con un mio maestro di direzione d’orchestra, molti anni fa. Era bulgaro, e venne con me durante una mia esecuzione della Bohème di Puccini. Durante una pausa gli dissi: “Certo che questa musica mi emoziona, ho sempre il groppo in gola.” Lui, con la freddezza e la saggezza di un maestro anziano, mi rispose in un italiano incerto:

Direttore no piange. Pubblico piange. Direttore pensa, ascolta e fa funzionare orchestra.

Lapidario, ma perfettamente chiaro: il direttore non può permettersi di essere travolto dalle emozioni. Deve ascoltare, controllare, pensare. Davanti a sé ha ottanta o cento orchestrali, un coro, una scena, cantanti che attendono ogni suo gesto come guida. Non può lasciarsi andare. Il suo compito è mantenere il controllo assoluto, avere un’idea chiara nella testa, comunicarla all’orchestra e correggere quando serve. Tutto questo richiede concentrazione, non abbandono emotivo.

Non sto dicendo che il musicista sia una persona incapace di emozionarsi. Ma fare musica professionalmente non è un modo per meditare. È, piuttosto, un modo per offrire con umiltà qualcosa di grande, scritto da altri. Quando prendo in mano una partitura di Mozart, devo avvicinarmi con rispetto: studiare, analizzare, applicare la tecnica necessaria per portarla al pubblico nella forma più vicina possibile all’intenzione originale dell’autore. La parte emotiva la elaboro nello studio, ma sul palcoscenico devo affidarmi alla parte intellettuale e tecnica.

Anche un chitarrista professionista, quando suona, è assorbito da una moltitudine di problemi tecnici: la mano sinistra, la destra, le note, la precisione. Non c’è spazio per la pura emozione, perché l’atto dell’esecuzione è tecnico, razionale. L’emozione arriva prima, nello studio, non durante.

Ecco perché invito a guardare al musicista in modo diverso: non come a un essere immerso nell’estasi, ma come a un artigiano raffinato, che domina uno strumento con dedizione, tecnica e rigore. Il musicista non piange: esegue. Ma in quell’esecuzione, se fatta con verità e rispetto, passa comunque l’emozione più grande.