¨

Il diritto al rispetto

Rispetto per l'ambiente, rispetto per la natura; rispetto per le istituzioni, lo stato, la bandiera; rispetto per la vita, rispetto per le culture, rispetto per i codici, la legge ed il pubblico ufficiale.
Ci si potrebbe scrivere un rap di venti minuti con l'elenco di tutto ciò che è di norma abbinato a "rispetto".
Ma in pratica, in cosa consista il rispetto, come si manifesti e come lo si esprima non è sempre chiaro.

C'è chi intende il rispetto come una forma di riverenza formale, una genuflessione più o meno metaforica, una specie di manifestazione di sudditanza. Ovvio che il contrario di rispetto in questo caso sia l'irriverenza o la disistima. Ma il rispetto di cui vorrei occuparmi è altra cosa. Penso al rispetto che si deve a tutto ciò che è "altro" dai noi, o persino del rispetto che dobbiamo a tutto ciò che esiste, noi compresi.

In questa forma il rispetto sta alla base di qualunque tipo di relazione umana, finanche dell'esistenza stessa. Qualunque essere umano - potremmo estenderci a qualunque "essere" ma il discorso si farebbe filosoficamente più complesso - dal momento del concepimento merita il rispetto dell'intero universo che lo accoglie; ma non appena l'essere umano acquisisce un barlume di consapevolezza, esso deve corrispondere il medesimo rispetto all'universo intero che lo circonda.

Limitando il ragionamento alle relazioni umane, rispettare dovrebbe significare l'essere assolutamente coscienti che ciascun umano esige rispetto per il fatto stesso di "essere", considerando l'essere l'insieme di tutto ciò che comporta l'esistere: corpo, pensiero, partecipazione attiva e passiva nell'universo, spirito e ricordo.
Tutte queste componenti si pongono nei confronti del rispetto su di un piano paritetico. Non può esservi rispetto di un corpo, un feto ad esempio, senza un uguale rispetto del pensiero di quello stesso corpo fattosi uomo adulto; non può esserci rispetto per il ricordo di una persona se alla stessa persona sia stato sospeso il rispetto in vita. Non può esserci rispetto per un individuo senza rispettare ciò che fa, fosse anche la più bassa delle attività.

Questo in teoria. In pratica, invece, il rispetto è appeso ad una infinità di baluardi pseudo-antropologici, etici, culturali, morali, sociali e quant'altro. Da questa infinità di ragioni, da sempre adoperate per revocare il rispetto a questo o a quello, è sorta nel tempo la convinzione che il rispetto ce lo si debba guadagnare, che esso non faccia parte dei diritti di ciascuno, che il mondo sia diviso fra "uomini" e "uomini di rispetto". Un individuo è rispettabile se si distingue, altrimenti non lo è. E mi astengo dall'addentrarmi su quali siano, e siano stati nella storia, i modi più diffusi di conquistarsi la "rispettabilità".

Supponiamo che il rispetto sia un diritto inalienabile della persona, invece che una qualità o un modo arbitrario di porsi nei confronti del prossimo. Rispettare significherebbe accettare che ogni essere umano sia equa parte dell'insieme degli umani, ed ogni particella di cultura sia condivisa equamente da tutti. Nessuno potrebbe rivendicare superiorità a priori o verità assolute.
Ribaltare questa supposizione significa lasciare la porta aperta a forme di razzismo, di integralismo, di assoggettamento culturale.

Con una certa ipocrisia si è pensato che fossero le ideologie ad essere la causa unica delle tragedie immense degli ultimi cent'anni. Ma le ideologie, di qualsiasi matrice esse fossero, erano espressione di ragionamenti e speculazioni filosofiche. Se fossero state sperimentate od applicate senza mai perdere il contatto con il presupposto del rispetto universale per ogni essere umano, alcune di queste potrebbero ancora oggi rappresentare, per lo meno, un terreno di discussione, di riflessione e di sperimentazione.

Oggi invece, spazzate via tutte le ideologie, ci ritroviamo vuoti di prospettive ideali per il futuro, ed insieme rimaniamo soggetti ad una irrispettosità verso il genere umano endemica, generalizzata, forte del solito interesse dei pochi nei confronti dei molti.

In un regime di irrispettosità globale ognuno di noi si ritiene nel giusto se comincia a non rispettare l'amico per le sue idee, l'amica per le sue abitudini, il vicino per il colore della pelle, questo per la sua cultura, quello per la sua religione. Se poi una persona si macchia di un delitto, ecco che la mancanza di rispetto trascende, anche in alcuni paesi evoluti, nell'annientamento totale del rispetto pure della vita: la pena di morte.

Chi non rispetta il prossimo, il suo pensiero, il suo microcosmo, i suoi beni e la sua attività, in effetti si macchia di un delitto, il quale però rimane tale solo se il principio di rispetto universale non viene sospeso a scopo penale. Una pena è giusta se viene comminata rispettando l'uomo e persino la sua azione delittuosa. Solo in questo modo è possibile pensare di correggere la mancanza di rispetto che ha animato l'azione delittuosa, altrimenti la pena diventa repressione inutile e vendicativa.

Sebbene possa sembrare paradossale, proprio la riflessione su cosa significhi rispettare persino un'azione delittuosa, può far luce sull'intimo concetto di rispetto.
Rispettare non significa amare, nemmeno condividere, nemmeno avvalorare o ratificare. Rispettare significa dare un valore "1" ad ogni persona, pensiero, azione che ci circonda. Dando valore "1" si compie un processo di integrazione nel tessuto sociale ed umano intero, fatto di elementi positivi e negativi.

Dando un "1" a ciascuno è come se lo si invitasse a tavola, offrendogli sedia, piatto, posate e vivande. Se poi la persona si comporta in modo sgradito, o esprime pensieri che non condividiamo o addirittura ci offende, il suo "1" rimane protetto. Semplicemente ci si attrezza per rapportarci di conseguenza con quella persona o con i suoi pensieri. Questa prassi sta alla base delle grandi negoziazioni, dei grandi confronti, del compito di trovare una soluzione diplomatica, giusta ed equa a qualunque problema. Si parte con tutte le posizioni sullo stesso piano, tutte con un "1". Impensabile confrontarsi su basi differenti.

Dare invece uno "0" ad un individuo a causa del suo essere, della sua cultura e dei suoi pensieri, significa estrometterlo da quel grande tavolo al quale sono seduti tutti gli esseri umani, senza distinzioni o gerarchie. Dare uno "0" significa escluderlo a priori, costringendolo così a creare nuovi tavoli e nuovi sistemi di numerazione.

Purtroppo il dare uno "0" a chi ci sta attorno è un'abitudine più diffusa di quanto si pensi. Nell'esperienza di ciascuno di noi ci sono momenti nei quali ci sentiamo privati del nostro "1", magari furbescamente, cercando di ingannare la nostra intelligenza.
I più esperti detrattori sono i depositari di verità, i "senza dubbi", i censori. Sono le classiche persone che prima ti appioppano uno "0", poi ti stanno ad ascoltare, poi ti fanno la morale, e poi si offendono se tu, per riprendere la discussione, pretendi almeno che ti sia ridato l'"1".

Ho imparato per esperienza che il discutere, lo scontro dialettico, persino il diverbio siano preferibili alla sottile privazione del rispetto a cui ti sottopongono alcuni amorevoli interlocutori.
Ho imparato che chi abbandona il tavolo di discussione, a causa delle tue idee, ti sta privando del rispetto.

Chi ti manda "affanc..." di solito protegge il tuo "1"
Chi con ipocrisia sottovaluta la tua intelligenza, o peggio, tenta di osservarti dall'alto, di solito ti toglie il tuo "1".
Oltre che rischiare di cadere!

Gremus

Gremus
La passione per la Grande Musica,
online dal 2007.